GENOVA. 1 GIU. Oltre che bevanda, nell’antichità mediterranea il vino era anche alimento, sacro fin dai tempi di Dioniso (il Bacco dei Romani), dio incline all’ebbrezza ma al tempo stesso esperto di aratro e di miele.
La vite giunse progressivamente in Mediterraneo da est, cioè dal luogo in cui si leva il sole. I Fenici, marinai e commercianti evoluti, circuitarono specie e pratiche prima dei Greci.
Erodoto aveva attribuito ai Persiani una sfrenata inclinazione al vino, i Greci risultarono più contenuti ed esigenti, benché diluissero il vino con acqua marina, lo affumicassero, e impermeabilizzassero le anfore con resina di pino (aromatica)… Peraltro, quando i giovani ateniesi giuravano lealtà alla patria e agli dèi, invocavano – come testimoni – le vigne, il grano, l’orzo, gli ulivi, i fichi. E nell’Iliade e nell’Odissea già ricorrono sia alcuni luoghi vitati (Arne, Istiga, Epidauro) sia alcuni vini (il Pramnio, quello di Lemno, quello di Ismaro col quale Odisseo inebriò il Ciclope).
I Greci bevevano vino nel symposion, fase del banchetto classico successiva al deipnon (cena) e finalizzata a “stare” con gli altri, ritualmente, giocando a “còttabo” e seguendo i suggerimenti di un simposiarca, che presiedeva al tutto e officiava libagioni moderate. Ed è Roma, anche grazie ai suoi acuti studiosi di ruralità, che attenua l’import a beneficio dei propri vini ormai tipici, che in séguito trasporta la viticoltura nelle Gallie e che rende Spagna, Marocco ed Egitto nazioni esportatrici di produzioni d’élite, non di rado dentro recipienti in cui già si segnano l’annata e la provenienza delle uve… Quelle vendemmie erano sovente tardive, perché da uve surmaturate si ottenevano vini densi, dolci, aromatici “alla greca”, che – qualora di qualità – tolleravano meglio la vecchiaia, altrimenti andavano bevuti sùbito.
La loro “liquorosità” riusciva talmente grata che alcuni territori importarono ed impiantarono direttamente i vitigni da cui quei vini si ottenevano. Questi vitigni storici, insieme agli alloctoni, compongono l’attuale ampelografia mediterranea, sovente caratterizzata da fattori pedoclimatici unici al mondo.
Il vino da sempre accompagna il corpo di Cristo nella liturgia eucaristica, il vino è vita e civiltà in chiara contrapposizione all’arretratezza oscura, il vino incarna ed evoca la mediterraneità (la Sicilia da sola oggi ne produce tanto quanto l’Australia, potrebbe figurare come settima nazione produttrice al mondo…).
E come se non bastasse scriveva già l’enciclopedista Plinio il Vecchio che “nella qualità del vino influiscono il luogo e il tipo di terreno, e non l’uva o la scelta del vitigno, dato che la medesima varietà piantata in luoghi differenti genera qualità differenti”. Voilà dunque un vino mediterraneo che molti in generale hanno via via qualificato come generoso, longevo, portatore – ancora una volta – di caratteri unici e “solari” anche in virtù della vicinanza fra vigne e mare, lo zibibbo di Pantelleria, il moscato greco di Patrasso e Rodi, le malvasie sarde (malvasia deriva da Monemvasia, porto bizantino nel Peloponneso donde salpavano i vini di Creta e Cipro, destinati ad ecclesiastici e potenti)…
Un panorama ampelografico che in Italia poggia su terroir pienamente vocati come Liguria, Sardegna, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia… In Francia focalizza subito Corsica, Provenza e Languedoc-Roussillon. In Spagna individua le autenticità prioritarie in Catalogna, Valencia, Murcia e Andalusia. Ottimi vini si producono anche in Slovenia, Croazia, Grecia, Cipro, Turchia, Israele, Libano (la felice valle della Bekaa, già fenicia, dove la vite soprattutto a bacca bianca alligna a causa o in virtù del colonialismo francese, che dominò l’area fra le due guerre. Si realizzano alcuni milioni di bottiglie (il 40% delle quali viene esportato in una ventina di Paesi), fra cui splendidi barricati e vini dolci liquorosi).
Umberto Curti, www.ligucibario.com
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